La mia casa accogliente, aperta alle amiche e agli amici. La mia cucina con le pentole e le padelle sempre sul fornello. Il mio frigo dove non mancano mai formaggi e salumi e, ovviamente, il vino. E sì, anche il mio divano davanti al camino per un caldo dopocena.
Perché questa premessa? Nei miei tredici anni di questa casa ho accolto molte più persone che in tutte le mie precedenti abitazioni. Non è niente di speciale, ma la posizione, i colori, le migliaia di libri, i fiori sempre freschi, il salotto raccolto la rendono accogliente. Un posto dove si sta bene e dove tutti tornano volentieri.
Da qui è passata l’amica che aveva bisogno di distrarsi dopo un periodo davvero brutto; dormire e mangiare bene, tuffarsi nella bellezza di un centro storico che svela meraviglie ad ogni passo. Anche la conoscenza creata sui social spesso ha avuto un epilogo ‘di persona’; un modo in più per avvicinarsi alle persone, conoscerle, apprezzarne le qualità. Persone diverse, lavori diversi, stessa ‘necessità’ di chiacchiere, di tranquillità e di calore.
L’amico sprofondato in una grigia cupezza, tra pesante depressione e acuta preoccupazione, e che non aveva voglia di rientrare in una casa dove niente e nessuno lo avrebbe distratto da plumbei pensieri e da grigie emozioni. È rimasto qualche giorno, finché un po’ di luce gli ha permesso di riprendersi. Il giovane amico, detto nipotino proprio per il rapporto allegro e rispettoso delle reciproche età, lasciato senza un posto dove dormire per il prolungamento improvviso della sua presenza ad una fiera.
La proprietaria della caffetteria in centro dove per anni ho bevuto il caffè con mio figlio: si era chiusa fuori casa, senza chiavi. Mi chiama dopo un bel po’, una volta chiuso il bar, dicendo che non poteva rientrare a casa. Ricordo che quella sera avevo fatto i pizzoccheri, che bel gustare.
A queste presenze si sono aggiunte negli anni anche tanti amici a cena. L’ho già detto ma lo ribadisco: non c’è nulla che mi dia più piacere dell’organizzare, preparare e cucinare per una cena. La curiosità di vedere se piace la tavola, se il cibo incontra il gusto, se gli amici si mescolano.
Tutto ciò è per me impagabile. Ho respirato accoglienza ed ospitalità fin da piccolissima: sono nata in una grande casa con un grande giardino e per i miei genitori ospitare gli amici per qualche giorno era abituale. Il detto ‘l’ospite è sacro’ nei miei ricordi è sempre stato coniugato con il cucinare i piatti graditi agli ospiti, con il far loro conoscere luoghi e prodotti, col coinvolgerli, nel reciproco rispetto, nelle consuetudini di casa. Papà e mamma erano anfitrioni perfetti, ognuno con le proprie peculiarità: mio padre metteva a disposizione di chi soggiornava da noi la biblioteca, la cantina e i luoghi. Mia madre si dedicava alla tavola, alla cucina, agli inviti per far conoscere gli amici ricevuti e ospitati.
Nonostante le abitudini differenti, gli impegni di lavoro e la diversità della casa, la trasformazione dei ritmi e dei convitati, sono rimasta fedele a questi principi di piacevole e assoluto accogliere. Le mie cene sono un incrocio di persone, già l’avevo scritto; chiunque si sieda alla mia tavola deve stare bene, sentirsi a proprio agio, partecipando alla conversazione il cui tono è bene che cali solo per assaporare il cibo.
Per contro, non posso certo dire che i miei inviti siano stati sempre ricambiati, anzi. Pur non facendo un vile conteggio mi rendo conto che non tutti hanno le medesime usanze. Vi chiederete se tutti gli amici sono nuovamente e ripetutamente invitati: in genere sì ma a seconda della cena, del suo tema e del mix che desidero creare. Solamente due persone non avranno mai più accesso alla mia tavola: la maleducazione esplicita, nei confronti miei o dei miei amici, non è comportamento che io sia disposta a tollerare, in nessun caso. Ma in fondo direi che in tredici anni sono persone e percentuali, per molteplici ragioni, veramente trascurabili.


