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Lo sfamare d’amore di oggi sarà più denso ed emotivo. Bisogna leggerlo, sarà lungo, ve lo dico,  arrivare alla fine. E non so se avrà foto, forse l’amatriciana di stasera, ma non lo so ancora.

Queste son giornate di mancanze e, a volte, basta un gesto per evocare ricordi che mi strinano ancora la pelle. Sensazioni che sento così dirompenti dentro di me da far fatica. Tanta fatica.

Oggi, stasera, il cervello si concentra sui miei meravigliosi 19 anni. Non vivo di ricordi, anzi, credo di essere la persona più progettuale che conosco; ho un gran numero di risolute intenzioni per il mio futuro (certo, ho 67 anni suonati, quindi?). Ma il gran bagaglio delle esperienze e dei sentimenti vissuti fan si che io abbia tante cose da raccontare. Università, primo anno, totalmente spaesata dopo aver vissuto e studiato altrove, ripiombo nella cittadina di nascita che, semplicemente, non era più il mio luogo di appartenenza. Ma si sa, al cuore non si comanda. Lo incontro, ci piacciamo, ci amiamo, lo lascio: troppo diverso dalla me di allora. Lui, ancorato alla cittadina, agli amici, alla routine. Io pronta per vivere ovunque, forte delle lingue straniere; nulla mi pareva impossibile. Infatti, non lo era. Prima Parigi, poi Londra, e poi altro: non avevo scarpe, avevo le rotelle di un trolley.

Ma la vita scorre con le sue scelte di petto e di pancia, con le considerazioni fallate e le percezioni deviate dal sentimento, con le prese di posizione e le dichiarazioni di guerra fatte a sé stessi prima ancora che agli altri.

Ci perdiamo di vista per quaranta anni. L’ho scritto in parola perché possiate capire la potenza del tempo che passa. Lo ritrovo sul social con la F, sotto un commento di un giornalista amico comune. Cerco di capire se è davvero lui.

Cari i miei lettori, dovete capire che dopo una certa età, abbiamo una certa urgenza di sapere se le persone che hanno fatto parte della nostra vita ci sono ancora, se stanno bene. E, non è, vi giuro, l’ego che desidera la soddisfazione del ricordo, solo un affettuoso conteggio del tipo: ci siamo tutti? OK.

“Sono io”. Già, sei tu e subito mi dici che  stai combattendo un male che non perdona proprio perché non esiste una cura. Viene a curarsi nella città dove attualmente vivo. Nonostante il periodo in cui ci hanno blindato tutti, ci vediamo. Il pianto di entrambi esploso al nostro reincontro è il ricordo più bello, come quello del primo bacio. Scopriamo di aver sviluppato nel tempo le stesse passioni, il cibo, il vino, una certa propensione a godere della vita, magari in modo differente.

Per due anni abbiamo pranzato insieme dopo le sue cure, girando ristoranti, esprimendo valutazioni, chiacchierando della vita, della morte e di chi resta. L’amore giovanile diventato profondo affetto, ma complicità e stima immutate. Niente di carnale, solo la capacità di capirsi al volo, di ridere dei nostri difetti. Mi mancano le sue telefonate due volte al giorno, dopo le terapie il suo ‘ho finito, mi raggiungi, che mangiamo qualcosa insieme’? Faccio fatica a non avere più un giudice severo, un motivatore superlativo e un fan senza ritegno; uno che frantumava i miei voli pindarici e mi riportava sulla terra in tre nanosecondi, uno che mi dimostrava ad ogni minuto che la vita va vissuta anche se ti hanno già dato la data di scadenza.

E stasera, davvero col cuore pesante, vi dico che mi manca. Mi manca l’amico con cui puoi parlare di tutto perché quando avevamo vent’anni ci siamo scambiati la pelle. Le battute che capivano solo noi, gli insulti affettuosi l’uno per l’altra, e tante, tantissime risate.

Lui non c’è più da un bel po’, ma mi ha impartito una tale lezione di vita che non dimenticherò mai. Ciao G.

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